LAVORO POCO INTELLIGENTE

 

Una modalità lavorativa che non giova all’ efficienza

                                         LAVORO POCO SMART

Tra i piccoli e grandi traumi che il Covid si è portato con se  ce n’è uno che viene ora camuffato come  conquista sociale; l’ennesima modalità che importiamo dall’estero e lo facciamo nel modo sbagliato. Mi riferisco  a quello che non si capisce perchè chiamano “smart working” e quale sia  l’aspetto smart che, giova ricordare, sta per intelligente. Sarebbe il lavoro svolto da casa. 

La legislazione italiana ufficialmente definisce questo modo d’impiego come “una modalità flessibile di lavoro subordinato, che può essere svolto in parte all'interno dei locali aziendali e in parte all'esterno, utilizzando strumenti tecnologici, seguendo gli orari previsti dal contratto di riferimento e prevedendo l’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all'esterno dei locali dell'azienda”. Che, poi, non significa molto e sa solo di una clausola che deriva da qualche trattativa sindacale. 

Ma il Covid ha forzato il sistema ed ha reso questa modalità di lavoro come un modo per continuare a produrre senza uscire da casa.  Poi una politica incapace di grandi progetti e priva di una visione organica di società, ne sta gestendo  l’utilizzo come un pannicello caldo per coprire altre carenze organizzative e qualcuno lo sta contrabbandando come il modo ottimale di lavorare.  

Ma, vediamo come stanno le cose: secondo dati statistici pubblicati a livello internazionale e basati su circa 50.000 interviste mirate,  il lavoro agile viene già praticato dalla metà dei “lavoratori di pensiero”, manager e professionisti,  i quali esplicano la loro attività operativa dalla propria abitazione per 2,5 giorni di media per settimana mentre la percentuale scende a circa il  13%  fra i lavoratori autonomi . 

Nell’ ambito del lavoro dipendente il lavoro a distanza viene praticato da oltre il 5% dei lavoratori dirigenti, da circa il 3% degli impiegati di concetto e da meno dell’1% degli operai. Nei casi presi in esame, però, quel tipo di impiego non è stato dettato da ragioni emergenziali ma risulta da schemi lavorativi studiati per le esigenze degli enti e delle ditte e finalizzati al massima funzionalità coniugata con il benessere del personale. 

Insomma quelle scelte sono basate su una struttura operativa ben calibrata alle esigenze della produzione ed non all’ improvvisazione di politicanti che scambiano una costrizione emergenziale con una soluzione funzionale del complesso mondo del lavoro.  Questo è accaduto ed accade ancora presso molte entità statali o grossi sistemi complessi di assistenza anche privati. Prendiamo un esempio. Se uno chiede assistenza al servizio Vodafone o di altro gestore telefonico potrà trovare due risposte: la prima, con l’assistenza che viene fornita dall’ Albania o dalla Romania; la seconda, con l’assistenza che viene fornita dall’ Italia. 

Tutti sappiamo come va con l’assistenza da parte di un call  center straniero, si rischia di concludere il collegamento con qualche brusca imprecazione. Resta il collegamento con il call center italiano per avere assistenza qualificata,  anzi restava. Ora quasi tutti questi servizi operano in smart working e quindi, mentre si parla con l’operatore, si può sentire un bambino che piange oppure sentire la conversazione spezzettarsi per un collegamento poco efficiente.  

Quello che si continua a sottovalutare è che il lavoro a distanza è innanzi tutto un problema di organizzazione tecnologica, di sistema e di gestione  e, se il suo impiego viene adottato  per combattere il contagio,  ridurre  il traffico sui mezzi pubblici o gli assembramenti non ci si può aspettare che esso sia efficace. Si legge che lo smart working serve per risolvere il problema delle lavoratrici madri,  sotto intendendo quindi che la madre deve anche accudire la famiglia,  mentre sta lavorando e questa prospettiva viene contrabbandata come un soluzione favorevole alle donne. 

Non so, forse bisognerebbe chiederlo a loro e poi misurare il livello di efficienza. C’è poi la diatriba sull’efficacia dell’insegnamento a distanza con argomentazioni che fanno rabbrividire i sociologi. Ho seguito questo aspetto attraverso l’esperienza di un paio di docenti di scuola dell’obbligo che insegnano in un popoloso quartiere di Roma e, sotto giuramento di non fare i loro nomi o quello del loro istituto, mi hanno parlato di un fallimento quasi completo. Insegnare con l’uso di un cellulare o di un tablet utilizzando una rete poco affidabile e sovraccarica, con piattaforme lente e poco capienti, collegarsi con bambini che non dispongono nemmeno di un terminale, deve essere un esercizio di stress control e certamente un metodo alquanto discriminatorio.   

Non è vero che lo smart working sia un sistema di lavoro del tutto solo negativo. Niente affatto. Quello che conta è che esso venga accompagnato, caso per caso, da considerazioni di opportunità anche temporale, sia fatto precedere dall’ adozione di  sistemi operativi che pongano il lavoratore nelle condizioni di accedere, sia in fase in input  e sia in quella di output a banche dati e piattaforme adatte a riprodurre le condizioni di lavoro ed il sistema di contatti che permettano un grado di efficacia paragonabile quello che si raggiunge con la presenza nella sede di attività. 

Ma il lavoro, per molti lavoratori di livello medio e basso, non è solo fonte di guadagno e di realizzazione sociale ma è anche un mezzo per evadere da un quotidiano che spesso non è molto gratificante e questo è particolarmente valido per le donne. Il lavoro è  anche elemento di socializzazione e di confronto, il lavoro è dibattito, il lavoro è amicizia, il lavoro è complicità,  il lavoro è solidarietà, tutti aspetti che la distanza ostacola. 

Inorridisco al pensare una società di milioni di persone nel loro involucro che producono controllati da grandi e piccoli fratelli. Ve le immaginate le lotte sindacali e le conquiste sociali organizzate in smart working?! Intanto, in una realtà del tutto alienante che un virus ha imposto e che dalla quale non sembra ci si voglia  affrancare,  molte attività continuano ad operare a distanza con un efficienza molto discutibile. Sono centinaia di migliaia le persone, e non penso solo ai navigators, che stanno in casa senza fare o poter fare niente e continuano a prendere lo stipendio. 

Un uomo pratico e di esperienza, come il sindaco di Milano Sala,  ha voluto sintetizzare senza mezzi termini il suo giudizio sul lavoro a distanza “ora bisogna dire basta allo smart working, bisogna tornare a lavorare”. Forse il suo invito è stato alquanto improvvido e poco politically correct ma certamente non era privo di una sua consistenza logica.   

La tecnologia moderna ha gradualmente trasformato il  modo di comunicare in un’attività indiretta, un modo di interagire attraverso un intermediario spesso invasivo e pericoloso. Il modo di comunicare, specialmente fra i giovani, sembra allontanare socialmente invece che avvicinare una generazione che ha tanto bisogno di socializzazione. Lo smart working utilizzato al di fuori delle finalità legate strettamente alla funzionalità non può che contribuire alla progressiva alienazione sociale. 

Sergio Franchi

 

1 commento:

  1. In Italia siamo stati còlti letteralmente alla sprovvista, senza un allenamento precedente che ci avesse permesso quanto meno di capirne qualcosa.
    Gli effetti di tale sistema lavorativo potranno essere visti meglio fra qualche tempo allorché questo modus operandi entri a pieno regime. Se entrerà.
    Paola L.

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